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C'è un ristorante, a Los Angeles, che ti fa lo sconto del 5% se rinunci a portare con te al tavolo il tuo smartphone. L'invito è quello di lasciarlo all'entrata, chissà che uno dica che accetta di spegnerlo e poi non ci ripensi. Pare che da quando è stata avviata l'iniziativa (all'incirca un mese) dal 40 al 50% dei clienti abbia approfittato dell'offerta. Il proprietario, che è anche lo chef, spiega che il suo è un ristorante che cerca di ricreare un ambiente che sia il più possibile famigliare e che l'invito a lasciare i cellulari all'entrata nasce dalla voglia di “semplificare” e di aiutare le persone a “rientrare in contatto” fra loro.
Anche da noi, si comincia ad assistere a qualche tentativo di regolamentazione della tecnologia mobile. Per esempio a Udine, dove da qualche mese il Comune ha lanciato la campagna per la diffusione di zone «cell free», anche negli esercizi pubblici, che vengono invitati ad esporre cartelli che recitano «locale libero da cellulare». In pratica, si chiede ai clienti di spegnere il cellulare o, almeno, silenziarlo.
Ora, non discuto che la presenza degli smart phone nei locali pubblici possa essere a volte seccante e intrusiva, e che l'educazione delle persone spesso difetti (in questo, come in moltissimi altri ambiti), ma mi colpiscono sempre gli inviti a rallentare l'utilizzo della tecnologia per favorire il ritorno a una presunta età dell'oro della comunicazione, come se il deterioramento dei rapporti personali dipendesse dal diffondersi dei cellulari o di qualunque altro strumento. Un po' come dire che se ci sono tanti morti sulle strade è perché circolano tante macchine, non perché i guidatori corrono o non rispettano il codice. Se esco a pranzo o a cena con qualcuno che, invece di darmi bada e attenzione, controlla i messaggi, le mail o le notifiche dei social network, non ritengo che la “colpa” sia dello smartphone che glielo consente, ma mi faccio delle domande sul rispetto che l'altra persona nutre nei miei confronti e su quanto gli interessi trascorrere veramente del tempo con me.
Tornando al caso del ristorante losangelino, poi, devo dire poi che lo stereotipo della famigliola comunicante riunita a tavola mi ricorda tanto quelle della pubblicità dei biscotti o quelle dei film americani, dove prima di mangiare si dice la preghiera, tanto per capirci. La mia esperienza è stata decisamente diversa.
Per tutta la mia infanzia e fino alla tarda adolescenza ho consumato la maggior parte dei pasti con la mia famiglia, come tantissimi altri ragazzini. I miei genitori lavoravano entrambi e non erano molte le occasioni per stare tutti assieme, se si escludevano domeniche e ferie. Eppure, la prima cosa che faceva mio padre – marito devoto e genitore affettuoso – appena si sedeva a tavola era aprire un quotidiano e sintonizzare la televisione sul telegiornale. Li odiavo quei giornali e quei TG, i primi perché occupavano un sacco di spazio sulla tavola e i secondi perché imponevano un religioso silenzio a tutti i commensali. Aggiungete a questo che il genitore ha e aveva una vera e propria passione per i telegiornali, per cui nell'arco di un pranzo – complici i palinsesti sfasati – era probabile che di TG se ne vedessero anche 3 di fila! Non ho mai pensato però che carta stampata e televisione impedissero alla mia famiglia di comunicare o, peggio ancora, di volersi bene. Crescendo, ho capito che quelli erano gli unici momenti in cui papà poteva prendersi un momento di pausa da un lavoro che lo teneva impegnato tutto il giorno e che quello che leggeva o guardava erano le sue finestre personali sul mondo, non un modo per evadere dalla famiglia. Col senno di poi, mi sono resa conto di quanto stato istruttivo e salutare per il nostro rapporto poter litigare sulle notizie del giorno, a volte anche furiosamente, per via delle nostre visioni politiche spesso diametralmente opposte. Grazie a quelle discussioni ho imparato che si possono avere idee diverse rispetto a quelle delle persone che si ama, e amarle ugualmente. In realtà, credo che quei momenti siano stati per me delle “palestre di vita”, come si dice, delle occasioni per allenare la mia capacità di pensiero indipendente e anche per conoscere meglio mio padre.
La “connessione”, per usare l'espressione del ristoratore di Los Angeles, si può creare in tanti modi, ma dipende – credo – sempre dalle persone e non dagli strumenti che usano. Per questo, preferirei un esercente che dicesse qualcosa del tipo “Cari clienti, siete in genere dei gran maleducati. Potete usare la cortesia ai vostri commensali e agli altri clienti di non disturbare il loro pasto coi vostri cellulari?” come a Udine (dove ne fanno una semplice questione di educazione e di rispetto) invece di raccontarci la solita storiella delle relazioni che si deteriorano, dei rapporti sociali e famigliari che si incrinano per colpa di uno strumento tecnologico.
[Sulla crescente preoccupazione circa la pericolosità dei social media per le relazioni sociali avevo già scritto in I social media e la ricerca della relazione perduta]
Imporre una relazione, imporre un certo tipo di comunicazione, pretendere di educare ad un certo tipo di dialogo... Sono tutte cose che mi fanno abbastanza rabbrividire perché non partono davvero dall'altro ma solo da noi stessi e dal nostro modo parziale di osservare chi ci sta accanto.
RispondiEliminaAncora una volta in questo sta la differenza tra giudicare e comprendere.
È esattamente questo che trovo fastidioso di iniziative del genere, @hetschaap, la presunzione di suggerire (nel caso del ristorante del post imporre) un tipo di relazione che implica molti "non detti" che vengono dati per scontati: il concetto di famiglia come luogo del dialogo e della convivialità, per esempio. Il che, in sé, non ha nulla di sbagliato, anzi, ma non è l'unica via possibile :)
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